Da Batman al Coronavirus passando per Hitler: perché il pipistrello ci fa così tanta paura
Nel maggio del 1939 a Berlino, nella Cancelleria del Reich,
alla presenza di Hitler, Galeazzo Ciano e Joachim von Ribbentrop firmavano il
Patto d’Acciaio. Contestualmente, negli Stati Uniti d’America esordiva, sul
numero 27 della rivista Detective Comics, Batman, l’Uomo Pipistrello. Tra
questi due episodi, al di là del fattore cronologico, c’è un solo punto di
contatto: un forte richiamo ad un senso di minaccia, paura, angoscia. Nel primo
caso sarà la Storia, e la sensibilità di ognuno, a provvedere a chiarire il
significato o l’evidenza di tale emozione associata all’evento, nel secondo,
meno esplicito, ci viene in aiuto il Test di Rorschach, e prima ancora una
citazione di Bruce Wayne, alter ego diurno dell’antelucano Batman: “I criminali
sono codardi e superstiziosi. Il mio travestimento dovrà infondere terrore nei
loro cuori. Dovrò essere una creatura della notte, nera, terribile”.
Il miliardario Bruce Wayne, frutto della fantasia e della
matita di Bob Kane e Bill Finger – il primo ispirato dai disegni di Leonardo Da
Vinci, il secondo dal patriottismo e dall’impegno per la libertà del re
normanno Robert Bruce di Scozia – decide di impegnarsi nella lotta al crimine
indossando un costume da pipistrello per incutere timore ai suoi avversari. Per
quanto non sia una lettura univoca, nella cultura occidentale il pipistrello si
è conquistato nei secoli un posto tra gli animali che più leghiamo a sentimenti
di repulsione, angoscia e paura.
Che si pensi ai Romani, per cui era simbolo di sfortuna, ad
Isaia o al Levitico, a Dante che nel trentaquattresimo canto dell’Inferno
descrive Satana dotato di ali da pipistrello che producono il vento che
ghiaccia il lago di Cocito, o alla tradizione di alcune tribù di nativi
americani per cui il pipistrello ospitava l’anima di gente di malaffare, questo
piccolo e antichissimo mammifero alato è entrato a far parte del lato creepy
del nostro immaginario. La lista delle conferme si allunga se pensiamo al Conte
Dracula e all’ampio fenomeno letterario che ruota attorno ai vampiri.
Eccetto l’immagine fumettistica salvifica di Batman, il
nostro vissuto rispetto al pipistrello è da sempre connotato da timore e ansia.
Del nostro immaginario sono entrati a far parte anche contenuti relativi ad
alcuni strumenti psicodiagnostici, soprattutto quei test psicologici proiettivi
che sottendono dei significati reconditi che descrivono paure, desideri,
timori, aspetti della personalità di cui sovente non è consapevole lo stesso
osservatore: il più famoso tra questi è senza dubbio il Test di Rorschach.
Nella Tavola V del test, che nell’interpretazione canonica è
la Tavola dell’esame di realtà, legata anche agli aspetti della routine, la
risposta maggiormente attesa, ma non sempre presente, è un pipistrello, una
farfalla o una falena notturna. Questa tavola normalmente elicita una
sensibilità al colore nero che porta le persone a vedere contenuti carichi di
paura e malinconia. Il percetto del pipistrello è ancora una volta ancorato a
simboli di caos e morte, a forte contenuto fobico, che richiama una fonte, per
quanto vaga, di minaccia, con forti risposte di evitamento legate alla paura e
alla contaminazione. Una paura, un disgusto, intrecciati col dubbio sulla
natura di ciò che ci ammala.
Test di Rorschach, Tavola V
Quanti di noi oggi non vedrebbero effettivamente un
pipistrello in quella macchia? Dunque è ancora più plausibile pensare che molti
potrebbero venire orientati dal vissuto e dalle paure attuali legati alla
pandemia da Covid-19 ad organizzare l’oggetto alato in una gestalt che rimanda
al pipistrello, che ci infetta col virus, ma anche con la tristezza e con stati
d’animo negativi. Per noi occidentali rimane un simbolo fobico, che spesso
sensibilizza al disgusto e riflette le sensazioni che ci suggerisce il topo con
le ali di cui tutti abbiamo paura e di cui oggi temiamo il contagio.
La paura di ammalarci – di morire – ci chiude in casa,
giustifica l’emissione di norme che, tra gli altri effetti, ci mettono davanti
alla nostra solitudine, ci obbligano a ripensare il nostro incontro col mondo
ponendoci davanti alla consistenza ansiogena di questa nostra epoca
performativa, che ci fa uomini le cui vite concorrono a costruire una realtà
economica e sociale fondata sulla produttività, spesso a scapito di un contatto
più intimo con noi stessi, con la nostra interiorità.
Ma accanto al nostro essere costantemente indaffarati, c’è
anche l’altra natura propria dell’uomo che è messa in crisi: siamo animali
sociali, sociotropici, abbiamo bisogno delle conferme che ci vengono dal
contatto con gli altri, di uno sguardo, della dimensione sociale. Abbiamo
un’identità bisognosa di affetto, di sorrisi, di confronti. L’insofferenza
all’isolamento, la tristezza che ci comunicano le città vuote, reclamano il
ritorno della natura intersoggettiva della nostra coscienza: l’uomo è mondano e
viceversa, nell’incontro con l’altro e nel dialogo si costruisce questa
intersoggettività, si costruisce l’uomo stesso nella sua natura e identità più
profonda.
L’esperienza che stiamo vivendo è unica e sconvolgente nel
senso più proprio. Ci ha costretti a rivedere le nostre abitudini e il
complesso della gestione del nostro tempo. Un tempo che in teoria dovrebbe
essere ora più che mai nella nostra disponibilità, ma che invece si presenta
estraniante ed estraneo nella sua malinconia, nel suo vuoto, nella noia e nel
timore che ci porta. Un tempo che è sempre meno un kronos, un tempo condiviso
che trova senso nel suo essere vissuto con gli altri, e che invece è sempre più
un kairos, un tempo individuale, intimo, privato, che ci ricorda la nostra
solitudine.
In una cornice di strade e di case desolate il futuro perde
di slancio e il presente si dilata e si estende in una dimensione che sembra
essere senza fine. Questa noia, questi rimuginii e i pensieri legati al
contagio, riducono, infittendolo, lo spazio della mente, fino a renderlo
insopportabile, claustrofobico, un punto nero su un foglio bianco. Quanto
possiamo rimanere fermi in quel punto? Quanto possiamo sopportare tutto quel
bianco attorno? A quanto vuoto possiamo far fronte ancora? Una prima
risposta, quello che ci resta, è che nella noia gli accenni del nostro futuro
sono ancora luminosi e mantengono aperto l’orizzonte dell’attesa – la tensione
propria di questa dimensione solo apparentemente immobile – ultimo baluardo che
ci fa resistere ad una depressione che cancelli anche il futuro e ci lasci
senza speranza.
Questo dissolversi, il disorientarsi rispetto a se stessi,
il rischio di questo morire esistenzialmente, insieme e prima che fisicamente,
si sta schiudendo ai nostri occhi, alle nostre coscienze. È una prospettiva, un
problema sanitario e etico, che non possiamo più eludere e che concorrerà a
farci uomini e donne altri, in un dopo sempre più posticipato, inafferrabile,
ma già malinconico prima ancora dell’essere vissuto. Per ora, per non
smarrirci, un’opzione concreta potrebbe essere quella di concentrarsi sui
piccoli gesti del quotidiano: avere cura di sé e del proprio spazio vitale, non
eludere i contatti, per quanto in una forma nuova e smaterializzata, con gli
affetti, ancorarci a quelle amicizie che nella routine può capitarci di dare
per scontate, regalarci dei momenti, in questo tempo nostro, che siano dedicati
al piacere, il piacere che ci danno le cose e le persone. Prenderci cura del
nostro aspetto anche se non ne vediamo la necessità.
Questa infezione, questa minaccia invisibile, che arriva da
lontano e ci fa lontani, ci avvicina talvolta insopportabilmente a noi stessi.
È arrivata sulle ali impalpabili del pipistrello, ci mette davanti alla sua
noia, al suo buio, ci infetta con il suo lato oscuro. È arrivata fino a noi
volando, dopo il salto di specie partito dal pipistrello. In Cina la felicità è
福,
ideogramma che si pronuncia proprio come la parola pipistrello, che però è 蝠.
Cinque pipistrelli rappresentano le Cinque Benedizioni, e tra queste vi è la
longevità, intesa anche come desiderio di morire in età avanzata di morte
naturale. L’infezione è arrivata volando quando il pipistrello è uscito –
forzato, catturato, esposto, mangiato – dalla caverna, che in Cina è il portale
verso il mondo parallelo del buio, il mondo Altro, l’altro mondo. È arrivata e
attraversando uno spazio è approdata in un’altra cultura.
Il pipistrello ci ha guardati negli occhi e ci ha mostrato
la nostra fragilità, ha esposto le nostre paure rinchiudendoci nelle caverne
che sono le case che abitiamo. I cinesi amano i giochi di parole e un calembour
che riguarda il pipistrello suona come “felicità di fronte ai tuoi occhi”. E se
sapremo non distogliere lo sguardo potrebbe mostrare anche a noi, se non
proprio la felicità, almeno nuove opportunità. Il paradigma di Batman:
addomesticare il terrore.
FONTE TPI.it
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